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"Il Risveglio": nel teatro di Pippo Delbono l'autenticità sfida la finzione di Mario De Santis - Huffpost -

Martedì 29 Ottobre 2024 08:23

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Il Risveglio”: nel teatro di Pippo Delbono l’autenticità sfida la finzione

di   Ph: Luca Del Pia Ph: Luca Del Pia

È iniziata dal Teatro Storchi di Modena la tournée del regista ligure, che ritorna dopo anni di travaglio, facendone

metafora di un mondo che spera di rimettersi in cammino dopo pandemia e guerra

28 Ottobre 2024 alle 18:23

“La vita è ricordarsi di un risveglio” questo verso, anzi l’intera poesia di Sandro Penna contiene un nucleo non dissimile

dal senso ultimo del nuovo spettacolo di Pippo Delbono intitolato “Il risveglio”. Al dolore, alla tristezza e al “corpo

rotto” dal viaggio, in Penna segue “una liberazione”: è lo sguardo verso il giovane marinaio seduto nello

scompartimento e il mare azzurro fuori. Anche Pippo Delbono vuole parlare di un simile passaggio, affondando nel

buio dei suoi ultimi anni.

“C’era il Covid… e poi c’erano le guerre, l’Ucraina, la Palestina, ma a me non importava niente. Ero talmente preso

dalla mia guerra”. Inizia così lo spettacolo che come altre volte e anche più, mette a nudo la sua biografia, per poi

annodare sofferenze privatissime a quelle di tutti e alla Storia. Dopo le anteprime al Festival di Sibiu in Romania e a

Parigi, “Il risveglio” è approdato per la prima nazionale al Teatro Storchi di Modena, parte del progetto Opening –

showcase Italia sulla dramamturgia italiana contemporanea dell’ERT- Emila Romagna Teatro, produttore esecutivo

dello spettacolo (insieme molti partner italiani e internazionali).

Tutto accade sul palco inizialmente vuoto, l’artista arriva a sipario aperto, siede su una semplice sedia, in mano il

microfono. Prima parla a braccio, poi leggerà facendo cadere fogli come una clessidra degli anni della sua “guerra”: la

morte della madre, depressioni, amori che spezzano, ma soprattutto la morte di Bobò che chiama “Fratello, padre,

maestro”. Incontrato in un manicomio di Aversa nel 1997,  Bobò (Vincenzo Cannavacciuolo) era rinchiuso da

quarant’anni. Analfabeta e sordomuto, Delbono lo portò con sé e, da questa esistenza dura, di vittima inerme e

marginale, divenne presenza continua nella vita e sul palco per il regista. La sua morte nel 2019 lascia Delbono

sgomento e disperato “(non volevo nemmeno sentir pronunciare il nome”). Anche il loro primo incontro avvenne dopo

periodo buio, ma oggi, spiega l’artista in questa sorta di prologo, “dopo sei anni passati nel buio mi sono ritrovato di

nuovo nella vita, più vecchio. E anche le persone intorno a me erano diventate più vecchie”. Infatti, dice subito:

“questo spettacolo si potrebbe infatti intitolare La vecchiaia”. Come in altre pièce (“La rabbia”, “Guerra”, “Silenzio”

“Urlo” “Menzogna” “La gioia” “Amore”) Delbono parte da uno stato, una condizione esistenziale o psichica. Stavolta è

l’ultima stagione del teatro della vita, ma ribaltata come fosse un preludio. Così rievoca anni giovani, con la sua voce

profonda, più affaticata ma con dolcezza più che nostalgia. Alle sue spalle i Jefferson Airplane suonano Woodstock.

Rievoca quando andò a vedere The Who in Svizzera con un suo amico in moto. Delbono non resta seduto, balla con

Roger Daltrey sullo sfondo, canta con lui “See me Feel me” ha il “corpo rotto” e spicca il contrasto con quello

bellissimo del cantate degli Who. Balla e traballa, per i segni dei travagli fisici recenti, ma pure per sapiente teatro con

quel suo camminare come Bobò da vecchio, una mimesi d’amore.

È la voglia di mostrare che l’avventatezza giovane e l’incertezza da vecchi sono tutti passi di uno stesso cammino verso

la “gioia” (un suo tema ricorrente) non trionfale ma povero, precario. Diversamente dalla, felicità che sa di definitivo,

la gioia sta in ogni passo: non si raggiunge mai, ma si può incontrare per via.

Un cammino che ha la forma della poesia e della danza. Ballano i membri della sua compagnia a partire dallo

straordinario Nelson Lariccia e poi Pepe Robledo, che c’è da sempre, o Ilaria Distante o Grazia Spinella vestiva da

Grace Slick, tutti con vestiti, tra festa e kitsch, discoteca di provincia, ma è ironia e libertà dal peso di età e

convenzioni, che sia Buddha o Grace a dirlo: “Ehi, sto ballando per strada” ed è questa la rivoluzione. Balla anche

Bobò che arriva, evocato, sullo schermo con quella figura tra beckettiano e clownesca, infantile e senza tempo, il

sorriso assoluto. Ballerà da qui fino alla fine dello spettacolo. Delbono si unisce ai danzatori, la biografia che diventa

festa come spesso è accaduto nei suoi spettacoli (a ricordare la sua storia artistica un bellissimo libro recente di Gianni

Manzella, “Delbono” appena edito da Luca Sossella, un saggio scritto con profondità e partecipazione).

La guerra vera compare improvvisa, in una lettera letta da un’amica sotto i bombardamenti, il cui rumure risuona,

mentre sui cumuli di sabbia – unico elemento di scena, stavolta non ci son fiori – versati sul palco, vengono infilate

croci. (Il pensiero corre al Medioriente di oggi: “Guerra” fu portato in tournée in Palestina nel 2003). Però ora “è finito

il tempo di soffrire” dice Delbono, mentre il violoncello di Giovanni Ricciardi suona nell’ombra. Come i saggi usa parole

anche troppo semplici, se lette dal filtro letterario: “Risvegliati/ devi sentire l’odore rosso del mattino/ Non avere

paura”. Non è la letteratura quel che interessa, è la sostanza che si incarna teatralmente, in una sorta di contagio

dell’autenticità e di grazia evanescente, che ne fanno artista acclamato sulla scena internazionale. Non ha paura

Delbono: né del semplice, del ridicolo, né del corpo e dell’umano non conforme (la sua creazione più famosa, che fu il

debutto con Bobò, “Barboni”). Pur avendo risonanza politica, il suo non è però teatro sociale. Magari sfiora il rischio di

trasformarsi in un Ecce Homo, anche se poetico e rock: See me, feel me, guardami, sentimi. Delbono punta a

generare un rito teatrale di condivisione dell’interiorità che si scioglie. Ci accomuna tutti il fatto che “la vita è ricordarsi

di un risveglio” per citare ancora Penna; che la memoria del raccontare, più della preghiera, è ciò che ci resta di divino.

La morte superata nel racconto dei morti che vivono con noi, ed ecco che tra gli altri rievoca Pina Bausch e il rapporto

speciale che la grande coreografa aveva con Bobò.

“Non voglio stare solo, voglio gente!” è il grido emblematico verso il finale e più della frase conta lo strazio che suona

in quel grido, sfida di verità nel luogo della finzione. Così come l’invito a “danzare nella guerra”. Tutto passa per la

connessione di empatia con lo spettatore, là dove la semplicità forma un’illuminazione. Dopo l’alternanza di confessioni

(“sono sempre stato attirato dal buio”) e desiderio di “volare”, il regista per l’ultima volta si alza malfermo e allarga le

braccia, stavolta come l’aquila che sogna di essere. Abbraccia ciascuno dei suoi attori e compagni di vita prima degli

applausi e se questo è uno spettacolo sulla vecchiaia, tutto sembra all’improvviso un commiato: addio a chi non c’è

più? O al teatro, perché i malanni fisici sono anche veri e non solo metafora? Tuttavia, ci si abbraccia anche partendo e

se il suo desiderio è di “andare”, c’è da attenderlo al prossimo passo. Inseguendo quello che Delbono insegue da una

vita (e noi ogni sera a teatro): diventare finalmente bambini.

Lo spettacolo sarà dal 31 ottobre al 3 novembre 2024, Teatro Metastasio di Prato, poi a Torino, Festival delle colline, teatro Astra dal 6 al 10 novembre e poi Savona, Milano, Bolzano, Cattolica Cascina.


 
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