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Sul palco la fragilità del mio amico Bobò di Michele Sciancalepore - Avvenire
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:47

 
Il risveglio di delbono : storie di vita e teatro di Antonio Righetti - Spettakolo
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:17

Il risveglio di Pippo Delbono: storie di vita e teatro

di

Antonio "Rigo" Righetti - SPETTAKOLO
-
21 Ottobre 2024

Emozioni. Ecco il cibo che nutre e soddisfa.

Emozioni pure.

Reazioni a fronte di domande secche e pesanti.

Di Che Cosa Hai Paura?

Pippo Delbono è un uomo di teatro che vive con pienezza l’arte, lo fa correndo rischi e rischiando. Lo fa cercando quel rapporto con la verità sulle assi dei palchi dei teatri di tutto il mondo ove le persone vengono a assistere a una magia che sanno essere costruita.

Certo, quando funziona lo capisci.


A partire da poesie e racconti originali, Pippo Delbono mette in scena un gesto di solitaria ribellione, mosso dalla volontà di continuare a vivere, allargando lo sguardo verso ciò che ci circonda, a costo di trovarsi di fronte a una realtà peggiore di quella da cui si era fuggiti. Attraverso il racconto salvifico delle proprie debolezze, paure e speranze, l’artista crea uno spettacolo che è un’invocazione alla rinascita e che, a partire da un’esperienza personale, sfocia nella rappresentazione universale di quel “sentimento di perdita” che riguarda tutti.
Il risveglio è un lavoro sulle cadute e i risvegli, dedicato a chi si è addormentato e poi risvegliato, e a chi ancora non lo ha fatto.
Attorno a Pippo Delbono, gli attori della Compagnia danzano sulle note struggenti che suonano lamenti di amore e tenerezza evocando un rito sacro, un funerale forse.

La voce, quella voce di Pippo Delbono che è uno strumento favolosamente musicale, con quella voce che modula, sussura, canta e incespica come col passo, Delbono racconta la sua verità che tocca la nostra.

Soprattutto il teatro di Delbono è musica, ascoltata vista e vissuta con l’afflato idealistico di quei tardi anni sessanta e tutti i settanta, quando il cambiamento che credevamo possibile sembrava lì lì per accadere.

I Jefferson Airplane con Volunteer, oppure The Who, raccontati in un episodio di vita di Delbono, fino a Lather con la voce di Grace Slick a creare un universo sonoro insieme a suoni che sembrano penetrare nel racconto insieme alle note serafiche del basso di Jack Casady e la chitarra di Jorma Kaukonen.

Musica, c’è da sempre tanta musica nel teatro di Delbono, da Frank Zappa a Ornella Vanoni, dalle musiche create da Giovanni Ricciardi.

Sono canti che vanno diretti al cuore. Ti fanno sentire in compagnia, non più solo, su questa terra, così come emozione pura è l’omaggio a Bobo’, attore centrale nell’opera di Delbono, del quale, con quella voce, Pippo evocherà perfettamente lo spirito saggio e elegante.


Non siamo in cerca di scene che strappino dei gridolini di stupore, non ce n’è bisogno, rimane lo spazio per quelle domande pesantissime e profonde.

Una riflessione che a tratti è troppo umana.

I passettini drammatici di Pippo, quel suo danzare da seduto con le mani e le braccia, una fisicità sempre più interiore e le paure di Pippo che diventano quelle di tutti.


Farsi vedere emozionati spiace, è troppo auto-indulgente e aiuta il buio in sala per abbandonarsi a questo rito.


E’ un teatro di amore.

Amore per la vita e perdita dell’amore.


E’ un teatro del quale c’è più che mai bisogno.

“Devi danzare, danzare nella tua guerra”

La sua compagnia entra e esce, su tutti un Pepe Robledo fedele compagno di avventure.

Dentro lo spettacolo ritroverete i vostri morti, i vostri dolori, le vostre paure, la vostra musica.


Un teatro vitale, dove c’è vita, sudore, paura e coraggio.

Un teatro necessario.

 
Il fantasma di Bobò di Enrico Fiore - Controscena.net
Giovedì 24 Ottobre 2024 14:09

Il fantasma di Bobò

Pubblicato il 24 Ottobre 2024 da Enrico Fiore

Pippo Delbono in un momento de «Il risveglio», lo spettacolo dedicato a Bobò
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

La sera del 14 ottobre 2015. Sotto una pioggia battente partecipavo a «C’era una volta il manicomio», la passeggiata teatrale organizzata da Chille de la Balanza nell’ex ospedale psichiatrico «Santa Maria Maddalena» di Aversa. E camminando nei viali disastrati, scortato dall’abbaiare iroso dei cani randagi, arrivai a un locale restaurato alla men peggio da un’associazione di giovani che, non a caso, s’era chiamata «Don Chisciotte».
Dentro, in una stanza all’oscuro (ovviamente, all’ex manicomio di Aversa la corrente elettrica era stata tagliata), quei giovani avevano accumulato alla rinfusa, su un tavolo, le cartelle cliniche dei pazienti del passato. E da quel mucchio, sepolto nella polvere e nell’oblio, ne estrassi a caso, aiutato dalla debole luce del cellulare, una che sulla copertina recava il cognome Cannavacciuolo e il nome Vincenzo.
Naturalmente, non mi dicevano nulla quel cognome e quel nome dai caratteri scoloriti. Ma quando aprii la cartella m’imbattei (un corto circuito al cervello e un tuffo al cuore) nella fotografia di Bobò, il microcefalo sordomuto che Pippo Delbono prese con sé dopo i quarant’anni di solitudine e di dolore che appunto nel manicomio di Aversa gli erano toccati. Il fantasma di Bobò – il Bobò che, come sappiamo, divenne l’autentica star degli spettacoli di Pippo, e al pari d’ogni stella era murato nella lontananza – tornava per reclamare la verità estrema e assordante del proprio corpo di persona.
L’ho raccontato più d’una volta, quest’incredibile episodio. E lo racconto di nuovo perché m’è tornato in mente, con dolce prepotenza, mentre allo Storchi di Modena assistevo a «Il risveglio», il nuovo spettacolo di Delbono che Emilia Romagna Teatro ha presentato in «prima» italiana dopo il debutto a Parigi.

Un altro momento de «Il risveglio», arrivato allo Storchi di Modena dopo il debutto a Parigi

L’attacco è costituito da un video di Ornella Vanoni che canta «Domani è un altro giorno». E non si tratta di una citazione qualsiasi, ma di un autentico prologo che annuncia tutti i temi e, di più, le atmosfere dello spettacolo. Infatti, ai primi due versi della canzone in parola («È uno di quei giorni che / ti prende la malinconia») risponde subito un Pippo che dice: «Questo spettacolo si chiama “Il risveglio”, ma potrebbe chiamarsi anche “La vecchiaia”… Io ho passato sette anni nel buio, sette anni di dolore, come sette anni dentro a un frigidaire. Poi, quando sono uscito, mi sono visto e ho detto: ma sono diventato vecchio. Non mi ero reso conto. Come quando ti risvegli da un sogno. E ho visto che tutti intorno a me erano diventati più vecchi».
La coerenza, però, non si determina soltanto all’interno de «Il risveglio», ma anche sul piano del rapporto fra «Il risveglio» e gli ultimi fra gli altri spettacoli di Pippo: quello precedente, «Amore», finiva con un uomo (il «corifeo» di tutti noi) che andava a sdraiarsi sotto l’albero secco che d’improvviso si era coperto di fiori e lì si addormentava; e adesso è questione di destarsi da un sogno che, nel frattempo, è diventato l’incubo suscitato prima dal Covid e poi dalle guerre, in Ucraina e in Palestina.
Pippo si desta innanzitutto al suono dei gruppi rock che amò da giovane, i Jefferson Airplane di «Volunteers» («Guarda cosa sta succedendo fuori nelle strade / c’è la rivoluzione, vai alla rivoluzione») e gli Who di «See me, feel me» («Guardami, sentimi, toccami, guariscimi»). Ma su questi (appunto, malinconici) ricordi degli entusiasmi e delle illusioni giovanili ecco che s’innesta – in maniera prorompente e indomabile, e tormentosa e consolante insieme – la rievocazione di Bobò, il vero protagonista dello spettacolo.
Di lui Pippo dice che aveva più di ottant’anni e che camminava malissimo, sempre meno. E aggiunge: «Quasi non camminava più, ma danzava. Non poteva camminare ma danzava». E torna, dunque, la coerenza a cui ho accennato. Perché a Bobò viene immediatamente associata Pina Bausch. I due si adoravano, Bobò aveva capito che Pina era una donna molto importante e Pina, durante la cerimonia indetta dall’Università di Bologna per consegnarle la laurea ad honorem, piantò i cattedratici per andare a salutare Bobò.
Già, la danza. Fu questo uno dei tanti miracoli compiuti da Bobò. Come faceva, lui che non la sentiva, a muoversi perfettamente a tempo con la musica? La spiegazione ce la dà Artaud: «Se la musica ha un effetto sui serpenti, ciò non è dovuto ai concetti spirituali che trasmette loro, ma al fatto che i serpenti stanno sdraiati e distesi al suolo in ampie spirali: cosicché il loro corpo lo tocca per quasi tutta la sua lunghezza, e le frequenze musicali che sono propagate attraverso il suolo li raggiungono come messaggi vibranti e indefiniti; bene, io intendo comportarmi con il pubblico come gli incantatori di serpenti e voglio che raggiunga tramite il corpo le nozioni più misteriose».

Ancora una scena de «Il risveglio», creato dopo i cinque anni di silenzio seguiti alla morte di Bobò

Questo fece Pippo Delbono tramite il corpo di Bobò. E adesso avviene il miracolo di ritorno: il fantasma di Bobò, strappato alla lontananza della morte, ritrova la verità estrema e assordante del proprio corpo di persona incarnandosi nel corpo di Pippo, che si risveglia solo vincendo la paura «di non camminare più come Bobò». Di qui le danze che tramano di continuo lo spettacolo, di qui le musiche che sfociano (tutti i testi sono di Pippo, al contrario di quanto avveniva in precedenza) nella poesia: «Questa è una musica della vita / per la vita / con la vita / per l’amore / con l’amore / una musica per la libertà / con la libertà / per il dolore / con il dolore / per la solitudine / con la solitudine / per la paura / con la paura».
Lo scopo si fonde con il mezzo per raggiungerlo. Questo è il segreto della vita. E l’ossimoro disperante «Ho paura dell’amore / di restare senza amore» viene sconfitto dalla conclusione della lettera che Pippo racconta di aver ricevuto durante i suoi anni di sofferenze da una donna che sta in un paese in guerra: «I bombardamenti sono molto vicini. Ogni giorno qualcuno viene ucciso. Eppure noi continuiamo a vivere. Continuiamo a vivere. Continuiamo a vivere». Ancora s’impone e spasima la coerenza, la canzone di Ornella Vanoni dice: «Ma nonostante tutto io / non rinuncio a credere / che tu potresti ritornare qui ! / E come tanto tempo fa / ripeto chi lo sa / domani è un altro giorno, / si vedrà!».
Pippo presenta gl’interpreti (ma sono molto di più, sono la sua famiglia) seduti sul bordo del proscenio: a cominciare da Pepe Robledo («Lavora con me da quarantamila anni») e Nelson Lariccia («Ci siamo conosciuti per le strade di Napoli che lui era un barbone e prendeva tantissime medicine. Era completamente fuori di testa. Adesso non prende nessuna medicina, io invece prendo tantissime medicine e sono molto più fuori di testa di lui»), per finire, via via, a Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Gianni Parenti e Grazia Spinella.
Manca solo lui, Bobò. È il primo spettacolo di Delbono in cui manca. Dice Pippo: «Per cinque anni non ho potuto più guardare nemmeno una sua immagine. Non potevo sentire parlare di lui». Adesso, però, c’è il risveglio. Sul fondale viene proiettato il video di una delle incredibili danze di Bobò. E Pippo, sia pure smagrito ed esitante, dispiega una nuova e commossa e commovente forza, giacché non solo può guardarle, quelle immagini, ma se ne appropria, ripete come in trance i movimenti e i gesti di Bobò. Si libera nell’aria un’emozione, quasi una nota delle tante che a tratti sprigiona dal violoncello Giovanni Ricciardi.
Per mio conto, devo a Bobò la più bella immagine che mi abbia donato il teatro. «Barboni», lo spettacolo che rivelò Delbono, andai a vederlo a Matera, in compagnia di Angelo Montella del Teatro Nuovo di Napoli, che allora produceva Pippo. Viaggiammo in un’automobile minuscola, e fu un viaggio tanto scomodo quanto pericoloso. Perché era con noi Armando Cozzuto, uno dei «barboni», che non smise un solo momento di agitarsi, facendo roteare una sua stampella come una spada. Non so quale benevolo iddio ci salvò gli occhi. E così vedemmo.
Giunti davanti al teatro, fummo accolti da Bobò che lo presidiava. Orgoglioso e allegro, andava avanti e indietro nell’ingresso a passo di marcia. Aveva addosso la maglietta dell’Inter.

Enrico Fiore

 
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